Discorso Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini

In occasione della manifestazione “Meeting per l’amicizia fra i popoli” di Rimini, curata da Comunione e Liberazione, interviene il Presidente di Eni Giuseppe Recchi. L’incontro si occupa del tema “E l’esistenza diventa una immensa certezza”.
Di seguito la trascrizione del discorso tenuto da Giuseppe Recchi, documentato dal video che si trova al link: www.youtube.com/watch?v=7J6_NCiZ4FA

Buongiorno a tutti. Voglio ringraziare il Presidente della Compagnia delle Opere, Bernhard Scholz, il Presidente della Fondazione Meeting di Rimini, Emilia Guarneri e tutti voi per essere qui quest’oggi.

Non capita spesso di poter parlare davanti ad una platea come la vostra. Fino a non molti anni fa, una quindicina forse venti anni fa, trovarsi di fronte a così tanta gente che viveva e lavorava per un ideale comune era una situazione più che normale. Le tante anime che abitano il nostro Paese e che lo rendono vivo, costruivano gruppi, associazioni, movimenti, correnti all’interno dei partiti, dei sindacati, all’interno della Chiesa persino e ciascuno dei loro esponenti veniva da un percorso che in molti casi cominciava dai primi anni della propria formazione. Sicuramente dalle parrocchie, vera e propria rete sociale distribuita su tutto il Paese, come dalla scuola per poi, più grandi, continuare il percorso educativo entrando magari in un liceo, in un’università, nelle scuole di partito, del sindacato, e di altri luoghi di aggregazione che ancora rispecchiavano un’idea antica di luoghi aperti per la produzione di idee e capacità di partecipazione alla vita comune. Di formazione, insomma.
Naturalmente ciascuno sviluppava le proprie idee e i propri sogni e ad esse consacrava i propri sforzi.

Studiavamo più o meno tutti sulle stesse linee di programma, ci ritrovavamo tutti intorno agli stessi valori di IMPEGNO per raggiungere le COMPETENZE a cui sarebbero conseguite delle RESPONSABILITA’, nel lavoro come nella famiglia.

Questa filiera diffusa di produzione di idee e passioni durava nel tempo e garantiva quindi una progettualità nell’azione del Paese.

Oggi ho la sensazione che questi percorsi di formazione e di maturazione di una comune di identità e di un’appartenenza alla Nazione siano in qualche modo venuti meno. Come se si fosse rotto questo meccanismo, non sostituito da altro.

Oggi vi voglio parlare di come abbiamo bisogno di ricostruire questo meccanismo.

E’ il tema per il quale siamo chiamati oggi, tutti ad alzare lo sguardo, ad uscire da una logica del brevissimo termine, della politica del minimo costo rispetto a quella del beneficio superiore, dalla logica del minimo comune multiplo, cioè il minimo di cui accontentarsi che sta bene a tutti a quella del massimo comune divisore, l’obbiettivo massimo che tutti possiamo condividere.

E’ quindi il tema che deriva dalla consapevolezza che, se la partita della preservazione del nostro benessere, della costruzione di un futuro vivibile PER TUTTI si sta giocando su uno scenario sempre più ampio, fuori dai confini del nostro Paese e come vediamo in questi giorni, fuori dai confini dell’ Europa, o ci mettiamo in testa che si gioca come sistema oppure siamo destinati ad essere sconfitti.

Causa un recente incidente ho avuto modo di riflettere su come solo fino al 1920 le operazioni ortopediche di un ospedale importante come l’Istituto Rizzoli di Bologna venivano svolte utilizzando l’etere come anestetico, che garantiva una durata di 20 minuti di incoscienza oltre la quale diventava tossico e mortale. Vi assicuro che le operazioni di riduzione delle fratture del femore non erano a quei tempi più brevi di ora…

Per non dimenticare che nel primo dopoguerra la percentuale di analfabetismo in Italia era pari all’ 80%.

Bene in queste condizioni chi ci ha preceduto ha costruito quella che fino a pochi anni fa era la 6-sta economia del mondo, dotata di qualità e competenze che il mondo ci riconosceva.
Abbiamo raggiunto degli incredibili traguardi, di cui tendiamo spesso a disprezzare il livello di qualità. Ricordiamocene.

Ma questo non ci può bastare oggi.
Io credo che dobbiamo pensare come italiani, e lo dico soprattutto in quest’anno di celebrazioni, che avremo un posto nel futuro se ci mettiamo in testa che bisogna vincere, ritrovare il gusto del primato e la convenienza dell’eccellenza.
Il mondo non ci aspetta, non ci preserva il nostro posto nella competizione globale. Non sono previste medaglie di consolazione. E in ogni caso ci fai poco.

Se devo costruire eccellenza gli strumenti di cui ci dobbiamo dotare, a cui dobbiamo fare riferimento sono gli stessi che hanno motivato chi ci ha preceduto nelle stagioni in cui il Paese ha saputo esprime il suo talento migliore.

Certo tempi non facili, ma non credo che siamo veramente disposti ad accontentarci di un approccio di semplice sopravvivenza. E per questo non credo che possiamo permetterci politiche volte solo a dividerci e consumare il benessere acquisito – al quale tra l’altro neanche tutti hanno accesso – senza pensare a quanto necessario per rinnovarlo.

Ma io sono ottimista perché percepisco invece crescere una voglia di vincere, un desiderio di recuperare forza unitaria attorno a dei VALORI che siano evocativi della nostra vera identità.

Sento infatti aumentare forte il desiderio di COMPETENZA, contrapposta ad una dilagante superficialità in cui tutti dicono tutto e il contrario di tutto. E’ una superficialità a cui ci obbliga oggi tanto la bulimia di informazione quanto il susseguirsi frenetico di un’attualità che, rincorrendo se stessa, sembra impedire ogni approfondimento.

C’è voglia di SENSO DEL DOVERE, inteso come lealtà verso ciò che si fa e impegno nel volerlo fare al meglio per soddisfare, in primis, l’orgoglio di se stessi.

E in un epoca in cui nessuno sembra voler stare al proprio posto, non riconoscendo il valore del proprio ruolo, qualunque esso sia, sento crescere una forte voglia di RESPONSABILITA’, nel mantenere gli impegni e quindi nella responsabilità che si assume verso gli altri, la responsabilità di appartenere ad una Nazione.

E questo mi permette di introdurre l’altro elemento di questo mio elenco ma forse il più importante, su cui dobbiamo tornare a fare leva: la partecipazione dei giovani al Sistema.

L’accesso dei giovani ai posti chiave del Paese è fondamentale per trovare slancio, idee e passioni. Ma si dice spesso che ciò deve ritornare ad essere conseguenza di una libertà diffusa per tutti i giovani di farsi strada.

Benissimo: però essere giovani non è un valore in sé, non è una qualità che garantisce occasioni, privilegi, ma un’opportunità di presentarsi alla gara del mondo con più energia di altri ma soprattutto con occhi nuovi.

Einstein diceva che il genio era fatto dell’1% di talento e dal 99% di impegno.
Usate la vostra energia per il realizzare il 99% del programma.
E l’1%, il talento, se noi italiani siamo davvero così bravi, e ne sono sicuro, lo troverete in voi stessi.

Ripercorrendo i momenti più significativi della nostra Storia nazionale, i giovani sono stati protagonisti delle stagioni più esaltanti del nostro Paese e di quelle di cui siamo più orgogliosi.

A cominciare dal Risorgimento e fino all’unità d’Italia, negli ultimi anni spesso considerata come un goffo tentativo di far convivere genti e culture diverse e non invece come lo straordinario risultato che ha superato il progetto politico che lo aveva innescato e che in pochi anni ha portato l’Italia unita sul palcoscenico dei grandi del mondo. Sin dai primi dell’ottocento e fino al 1861, infatti, generazioni di ventenni o poco più hanno sacrificato se stesse per un idea di libertà e una passione di patria che, seppur ispirate da poeti e politici più anziani di loro, sono germinate interamente dalle loro azioni e dal progetto che avevano sposato.

Un altro grande e glorioso sforzo cui vennero chiamati i giovani italiani fu quello della ricostruzione post bellica negli anni dal 45 al 65 quando migliaia e migliaia di giovani e giovanissimi italiani con grande sacrificio riaffermarono, su basi civili e non più militari, l’orgoglio perduto.

Questa epica la incarna bene un personaggio come Mattei, fondatore di Eni e suo primo presidente, che costruì un sogno di un’Italia industriale, autonoma e capace di combattere e vincere quelli che al tempo erano per noi giganti terribili e che ora possiamo permetterci di guardare negli occhi, da pari a pari.

In quegli anni, Mattei è un giovane uomo. Nato nel 1906, ha 39 anni quando, nel ’45, la Commissione Economica del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia, con ratifica del presidente del Consiglio Ferruccio Parri, decide di liquidare l’Agip e sceglie Mattei come commissario. È storia nota che Mattei non liquidò l’Agip ma, al contrario, seguendo le proprie convinzioni e idee e confortato dalle scoperte di metano che si andavano facendo in Italia, costituì l’Eni il 10 febbraio del 1953. Mattei ha 47 anni e dalle sue idee, dalla sua passione civile e dalla sua preparazione industriale nasce un sogno di riscatto italiano e che diventa reale orgoglio, forza dell’Italia nel mondo e che impone un modello che tutte le altre compagnie seguiranno.

A questo proposito vorrei leggervi un passo tratto da una biografia di Mattei nella quale Mattei stesso parla di un incontro avvenuto a Montecarlo, al Hotel de Paris, nel dicembre del ’59 con il responsabile marketing e raffinazione della Shell e con il Presidente della Shell Italia.
“Fui chiamato a incontrarmi con uno dei 7 grandi. Uno dei più grandi, hanno un bilancio che è quasi pari al bilancio dello stato italiano […] Mi disse: “che cosa vuol fare in Tunisia?” “Ma in Tunisia vogliamo costruire una raffineria” Dice “Voi non farete una raffineria, perché la faremo noi” con una delle altre grandi compagnie, un’altra delle 7 sorelle. E io dissi, molto umilmente gli chiesi “Cosa ne pensa se invece di farla in due, la si facesse in tre?” Dice “NO”. E io allora tirai fuori dalla tasca la matita, avevo altri argomenti da discutere, lo guardai, li cancellai, e dissi: “Ho l’impressione che non abbiamo più niente da dirci. Ma lei questo colloquio di oggi se lo ricorderà per tutta la vita, perché noi siamo dei poveri, e abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di lavorare. E non possiamo più andare all’estero come dei poveri emigranti che non hanno altra forza che le proprie braccia. Vogliamo andare anche noi come imprenditori, con l’assistenza tecnica, e con tutto quello che un paese moderno come il nostro oggi può dare. E a questo punto ci lasciammo (…) In quel momento iniziò per la Tunisia, come era già successo in Marocco, in Ghana, in Sudan, una lotta terribile, senza esclusione di colpi, e io ho visto insieme dall’altra parte società inglesi, americane, olandesi, francesi, belgi, tutti uniti contro di noi. Due volte credo di avere perduto, poi ripresi forza e alla fine abbiamo vinto noi.”

Queste motivazioni l’Italia le seppe trovare fortissime fra le fila della sua società civile. In quei giovani che avevano trovato la forza necessaria ad esprimersi, grazie anche ai 4.2 milioni di emigranti meridionali al Nord d’Italia che fecero carne viva del sogno industriale e dell’orgoglio di rinascita italiano – e che si fecero carico di una responsabilità adulta per risollevare un paese distrutto.

Anche noi oggi abbiamo una grande responsabilità perché il momento è difficile e ci vogliono le forze migliori di questo Paese per uscirne ancora una volta vittoriosi. Lo dico anche e soprattutto ai giovani, alla generazione, inclusa la mia che non ha conosciuto, la guerre mondiali e alle generazioni successive che non hanno conosciuto neanche le tensioni generazionali degli anni ’70, o il crollo del comunismo ; lo dico a questa generazione post-moderna, che vive oggi una nuova guerra mondiale, non più militare ma economica e finanziaria, e si confronta , come quelle che l’hanno preceduta con le difficoltà di affermarsi e di costruire il suo mondo .

O qui presidiamo qualche primato e riusciamo a ottimizzare la nostra intelligenza e il nostro talento per arrivare prima degli altri a soluzioni che ci fanno vincere il nostro futuro o nessuno ci garantirà un posto in quel futuro.
Esistere non è garantito. Nella storia si conosce, al massimo, la magnanimità dei vincitori. Di quella dei vinti, importa poco a nessuno.

Rivolgo a chi di noi qui è un ragazzo un invito: che possa tornare a pensare ad orizzonti ampi, globali, a non avere paura dell’impegno e della sfida, che sappia muoversi secondo parametri di rischio calcolato ma in cui il calcolo sia minore del rischio.

Cercate di diventare numeri uno in qualcosa, siate i migliori in qualcosa.

Che possano tutti tornare ad essere orgogliosi, affamati di idee e di passioni politiche e civili per una nuova Italia.

E’ uso chiudere i discorsi con citazioni di grandi pensatori e avevo pensato alla famosa frase di Ghoete che diceva “Ciò che hai ereditato dai Padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”.

Ma mi viene in mente anche un’altra cosa che mi è molto piaciuta, che non ha detto un professore ma un attore, Roberto Benigni, facendo l’esegesi dell’inno di Mameli, quest’anno a San Remo: VOGLIAMO BENE A QUESTO PAESE cosi come glie ne hanno voluto i giovani del Risorgimento, che avevano imparato a morire per la Patria perché noi potessimo vivere per la Patria. Quei giovani erano mossi da grandi ideali e proclamavano con forza i propri valori.

“PER REALIZZARE I SOGNI BISOGNA SVEGLIARSI E SE NON CONOSCI I TUOI VALORI NON SAI DOVE VAI”.

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